Il 29 febbraio avevamo già scelto di non fare riunione, per lasciarci un momento di comunità capi. Appuntamento per tutti il 7 marzo in tana, pompati e pronti a partire con il gioco delle prede. Tutto quasi pronto, ma… il 5 marzo mi sento male, ho la febbre che mi sale e le forze che mi mancano. Due giorni dopo anche mia moglie si ammala, anche lei è un capo.
Il governo blocca tutto, dobbiamo pensare a come fare per non lasciare questi nostri ragazzi da soli, ma… non ce la faccio. Cerco di pensare, le idee che esplodono in una mente malata tornano presto ad affondare nel dolore.
Io e lei accanto nel letto, con una febbre sempre più alta, le mani strette ed una testa incapace di pensare se non solo a se stessa: non sono abituato, non è da me. Cerco nella chat dello staff se qualcuno sta pensando a quello che vorrei pensare io, e la frustrazione sale. Vorrei fare tanto, penso ai lupetti che pian piano ci sentono più sbiaditi, ed io che lotto contro una febbre che non mi lascia né testa né corpo. Mi abbandono. Soffro e dimentico i miei lupetti. Piango. Perché non è giusto, perché non voglio dimenticarli, ma la sofferenza supera la volontà.
Passano i giorni, mia moglie viene ricoverata ed io pian piano sto guarendo. La febbre mi lascia, anche se respiro ancora con grande fatica. Leggo nella chat di staff che qualcosa stanno facendo (in realtà mi fido, ma non ho ben capito cosa abbiano fatto e pensato), e mi abbandono.
Sono un capo, sposato con una capo: siamo tutti e due capi covid-positivi. La nostra vita di servizio oggi è messa in discussione. Anni di prima linea, anni in cui da capi ci siamo sentiti sempre indispensabili ed obbligati di essere al centro di ogni decisione, di ogni pensiero. Ed invece ci troviamo soli, forzatamente soli, ma con una comunità capi e degli staff che comunque lavorano, comunque continuano a sentire vicini i ragazzi.
Questo virus ci aiuta a sperimentare il nostro ruolo di capi in Agesci. Ci aiuta a prendere coscienza di chi siamo e che ruolo siamo chiamati a svolgere. Essere malati in questo momento ci sta facendo vivere una grande fragilità di corpo, di spirito e di carattere. Ma sentiamo l’Agesci vicina, a tutti i livelli. L’abbraccio dei ragazzi, dei capi con cui lavoriamo, di tutti i livelli dell’associazione. Siamo stretti da un affetto commovente, che libera il dolore e ci lascia solo la forza. Di tornare, di pensare, di abbracciare.
Torneremo presto: pregate per noi.
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