Da un mese a questa parte i miei giorni trascorrono velocissimi e sono scanditi dai giorni di riposo dal lavoro, in cui mi sento pulita, in cui sento che sto facendo la cosa giusta, giorni in cui mi sento sana, in cui sembra di svolgere al meglio il mio servizio.
Nei restanti giorni sono ossessionata dal dovermi lavare con saponi improponibili per tenere al sicuro le persone intorno a me. Ovviamente non funziona proprio così il contagio.
Ho sempre amato e desiderato l’aria ghiacciata e rigenerante in vetta. Oggi l’aria che sento più spesso è quella sparata in faccia ai pazienti dalle condutture dell’ossigeno.
Sono sempre stata orgogliosa di poter radunare tutti gli esploratori e le guide, lanciando sei fischi. Oggi a fischiare sono i bip dei monitor che richiamano la mia attenzione.
Ma invece che in cerchio, mi ritrovo ai piedi di un letto e urlo perché tra la mia mascherina e la loro si gioca a chi è più sordo.
Quando mi laureai avevo la ferma convinzione che la mia fosse una vocazione, che aiutare gli altri per tutta la vita mi avrebbe reso una persona felice.
Poi è esploso questo virus che ha scelto per me e mi ha costretto ad affrontare cose che 4 anni e mezzo fa non immaginavo neanche.
Fino al 20 marzo ho lavorato con i neonati: loro insegnano l’attenzione ai particolari, l’importanza dell’osservare. Oggi queste pillole di Metodo sono fondamentali.
E’ cambiato tutto: il reparto in cui lavoro, il tipo di paziente, la malattia, la mia vita, le relazioni.
Non avrei mai immaginato potessi essere così.
Tutto è cambiato, ma nulla è cambiato.
C’è in me una serenità indescrivibile che provo ad analizzare quotidianamente.
Ho capito davvero il significato del nostro motto “fare del mio meglio per essere sempre pronti a servire”.
Questo faccio nella mia quarantena “del mio meglio”: studio tantissimo, imparo tantissimo, amo tantissimo.
Vedere le facce dei miei pazienti stretti da quelle maschere che sembrano togliergli l’aria invece di donargliela, fa male. Soli e senza fiato. Non posso nemmeno mettermi lì vicino, ci raccomandano di ridurre i contatti.
Più che dargli tutti i sollievi in mio possesso non posso fare di più. Ad esempio, quando dobbiamo fare l’emogas, io gli tengo sempre la mano. Quando gli buchiamo la parte interna del polso per prendere l’arteria e fa male, gli do la mano. Dico a me stessa che la malattia è questa. Pur chiedendomi ad ogni fine turno se ho fatto abbastanza, il cinismo entra un po’ nell’anima degli infermieri, ci aiuta ad andare avanti.
Lavoro con il corpo umano, il Tempio dello Spirito di Dio e non riesco a dimenticarlo.
Quanto grande e salvifico è il nostro saperci affidare.
Ho sempre trovato un amore incondizionato nello scoprire il disegno di Dio per me, in tanto momenti di gioia e di malattia nella mia vita, da quando ero bambina.
Questo Amore ci salva, fratellini e sorelline.
Riflettendo ho capito poi cosa mi sta dando il coraggio di affrontare questa situazione.
Coraggio vuol dire “avere a cuore”. Ho capito cosa mi ha rasserenato, cosa mi fa andare a lavoro contenta, cosa mi fa tornare a casa felice di rischiare di poter contagiare le persone più importanti della mia vita: ho un’ancora! Il Signore mi da la serenità, mi sento parte del suo disegno, sento che mi sta guidando, sento di non essere sola. Mi sento un po’ Maria, con le lacrime ho detto “Eccomi” e lui mi ha risposto “Non temere”.
Non so se andrà tutto bene, ma di certo tutto concorrerà al Bene.
Buona caccia
Una capo della nostra regione
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