Ass.Reg. 2: la Relazione di Don Marcello Cozzi

Durante la mattina della domenica in Assemblea, abbiamo avuto il piacere di poter ascoltare Don Marcello Cozzi Vicepresidente Nazionale di LIBERA.

Le sue parole hanno scosso e stimolato i capi, che poi si sono ritrovati in gruppi per approfondire e scambiare opinioni al riguardo.

L’intervento prezioso fatto da Don Marcello, è contenuto nella relazione che di seguito inseriamo nell’articolo.

 

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“Le nostre responsabilità” 

di Don Marcello Cozzi

La prima responsabilità è quella delle parole. Prima di tutto perché ce ne sono troppe. Analisi, solo analisi; statistiche, sondaggi, proiezioni, teoremi, senza però vedere sbocchi, vie di uscita, soluzioni. E quanti programmi a cui non si da un seguito. Tanti propositi, buoni propositi; ma spesso tutto finisce lì. Elucubrazioni fondate, condivise, giuste, ma bene che vada alla fine ci accorgiamo che sono solo giri di parole dietro su cui si nasconde l’incapacità di andare oltre quelle parole e l’incapacità di rimboccarci le maniche, male che vada servono solo per legittimare i nostri recinti, l’ombra dei nostri campanili, la logica dell’orticello che attanaglia le nostre associazioni. Con lo sbocco, spesso, di riempirci di mille cose, di tenere i piedi dappertutto ma senza aver capito alla fine quali sono le priorità.

La società dei mass media, della vita privata che diventa spettacolo pubblico, della politica gridata, del Parlamento trasferitosi nei talk show televisivi, è la società delle parole che scorrono a fiumi, di una loro inaudita moltiplicazione, così tante che ci si accavalla, ci si parla addosso. E non si ha più la capacità di ascoltare. Ascoltare quello che davvero ti accade intorno, ascoltare la pancia della gente, il malessere di chi non ce la fa più, il disagio di tanti, la rabbia di molti.

I nostri giovani non hanno bisogno di tecnici che soffochino quella loro rabbia con i manganelli, ma di una politica che li ascolti, che gli dia speranza, che gli faccia vedere un orizzonte, e che gli chieda scusa per come ha ridotto la scuola pubblica da vent’anni a questa parte, per il futuro che gli stiamo negando e per il presente che gli stiamo violentando. Qualcuno li ascolti i nostri giovani invece di prenderli a manganellate. E si ascoltino le famiglie in difficoltà, i senza lavoro, quelli a cui il lavoro è stato scippato, quelli che un lavoro non lo vedranno mai, quelli per i quali il lavoro non è un diritto che ti nobilita ma un favore che ti costringe a prostituirti. La gente vuole farli i sacrifici, la nostra gente li ha sempre fatti, in questa terra poi cresciuta e costruita sui sacrifici di tanti, fuori e dentro i confini regionali, purché si dica quando finiranno, purché si garantisca a tutti il minimo indispensabile per vivere, non sopravvivere, ma per vivere con dignità e purché non siano più consentiti privilegi a nessuna casta. Mai più vitalizi a vita, stipendi d’oro, doppi stipendi, compensi per parenti e amici degli amici, mai più la cosa pubblica come se fosse cosa privata, e nel frattempo vengono tagliati i servizi, non ci sono più soldi per la povera gente, si mortifica la cultura.

Che si ritorni ad ascoltare, che torni a farlo la politica scendendo nelle viscere delle persone piuttosto che usarli come serbatoi di consensi, che lo faccia davvero certa chiesa, quella che ci sembra più preoccupata a conservare i privilegi acquisiti che ad annunciare la libertà evangelica, che lo facciano le nostre associazioni troppo spesso finalizzate alla propria sopravvivenza piuttosto che al servizio della gente che a noi si rivolge.

C’è una barriera da superare: la disgregazione delle associazioni, la concorrenza esasperata, l’individualismo dei gruppi, la logica dell’ombelico, un esasperato narcisismo associativo. Sentiamolo come il primo grande impegno: aiutiamoci e aiutiamo i nostri gruppi ad uscire da questa diffidenza con cui ci si guarda, da queste rivalità, dalle logiche di clan. Uniti, insieme si cambia, non attaccati alle etichette e ai campanili: insieme. Non ci sarà cambiamento finché non si camminerà davvero insieme. Come pensiamo di saper ascoltare se fra noi non sappiamo ascoltarci, confrontarci. I poveri ci guardano e ci giudicano.

Lo faccia ciascuno di noi. Solo se ascolti, ma se ascolti davvero puoi capire se nell’altro stai cercando semplicemente di soddisfare i tuoi bisogni nascosti o quelli di chi ti sta dinanzi, solo se ascolti e ascolti davvero prendi coscienza che le tue parole sono diventate inutili e stanche, solo se ascolti ti rendi conto che non si può più perdere tempo.

Ma responsabilità delle parole è anche andare oltre la loro crosta, scendere nella profondità dei significati, non farsi prendere dalle spiegazioni di comodo, ridare “sovranità” alle parole, come direbbe don Milani; perché una parola non detta per intero, svuotata dal suo vero senso non ci interpella dentro e così lascia in superficie il nostro coinvolgimento e legittima le nostre latitanze. Prendiamo, per esempio, la parola crisi. È ormai diventata sinonimo di catastrofe, di tunnel senza uscite, di fuga dalla cosa pubblica, di chiusure individualiste ed egoismi che ci autorizzano al disimpegno perché tanto mai nulla cambierà, perché sono tutti ladri e tutti uguali. Crisi, invece, viene dal greco krino, significa “decidere”, “svolta”, “scelta”. Altro che ritirata in buon ordine, dunque, altro che facili rassegnazioni, la crisi ci richiama tutti a fare scelte coraggiose, a prendere posizione, a decidere da che parte stare, a scendere dalle comode torre d’avorio nelle quali ci siamo arroccati con la presunzione di essere noi quelli che hanno capito tutto, la crisi ci chiama a svolte decisive da imprimere ad un sistema che sta fallendo. Oggi non dopo, ora non domani.

 La seconda responsabilità è uscire dalla logica del fiammifero.  Non si costruisce nulla sui mal di pancia. È importante la rabbia, ci sveglia, ci muove dal torpore ma nulla si costruisce neanche sulla rabbia. Costruire sulle emozioni significa castrare i nostri progetti, confinarli in recinti senza futuro, significa non porre solide basi, significa costruire sulla sabbia dell’entusiasmo. Così non andiamo da nessuna parte. Fuggiamo da queste logiche. Una vera società alternativa a quelle del malaffare e delle mafie la si costruisce nel silenzio della quotidianità, nell’impegno anonimo nelle scuole, nel lavoro nascosto sui territori. L’aggressione mafiosa allo Stato non si è esaurita alle stagioni delle stragi, la trattativa non è un semplice pezzo di carta, parliamo di una stagione che sta scrivendo ancora oggi pagine decisive, e che oggi più che mai ci vuole politicamente e culturalmente attenti, presenti, quotidianamente vigili e non fermi solo a cortei e manifestazioni del giorno dopo; del giorno dopo, cioè, quello delle stragi.

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